Gaio Giulio Cesare Ottaviano, Augusto (seconda parte)

Il giovane Ottaviano era dunque padrone di Roma, sebbene i suoi poteri legittimi fossero scaduti nel 33 a.C. con la fine del triumvirato. Egli affermò di essersi mosso con il "consenso di tutti" (consensus universorum) che sebbene fosse la base del suo potere, mancava di legittimità; per ovviare a questo problema fu console ininterrottamente dal 31 al 23, rifiutando cautamente la nomina di dittatore, memore di ciò che era accaduto al padre adottivo. Dichiarò, quindi, di essersi mosso nel più profondo rispetto delle tradizioni repubblicane ma la realtà era ben diversa: una mattina del gennaio del 27, Ottaviano vide cambiare radicalmente la forma del proprio potere, plasmando la storia dei secoli successivi. Finse di voler restituire tutti i poteri conferitigli e il senato, che era ormai era nelle sue mani, gli conferì il titolo di Augusto. Tale titolo conteneva in sé diverse implicazioni, tutte legate all'accrescimento e al prestigio: la parola augustus deriva nient'altro che dal verbo augere (aumentare), e l'Augusto era colui destinato ad accrescere la potenza romana e, al tempo stesso, la sua potenza e il suo prestigio erano aumentati rispetto agli altri cittadini. Inoltre, tale titolo era anche legato all'antico concetto di auctoritas, che comprendeva anche connotazioni religiose: essendo stato adottato dal divino Cesare, Augusto poteva vantare la diretta discendenza da Enea e dalla dea Venere e poiché Cesare era stato divinizzato poco dopo la battaglia di Filippi, egli poteva definirsi "figlio di un dio" senza mezzi termini. Con la morte di Lepido nel 12 a.C., egli poté anche ricoprire la carica di pontefice massimo, la più alta carica religiosa a Roma. Augusto tenne a precisare di aver rinunciato a tale carica più volte, quando Lepido era in vita, sebbene il popolo lo acclamasse a gran voce. 
La buona sorte di Augusto, però, era lontana dall'abbandonarlo. Nel 23 Terenzio Varrone Murena, di nobilissima stirpe e collegata di Augusto nel consolato, ordì una congiura per eliminarlo; Augusto capì che il solo titolo di console non bastava più a proteggere i suoi sforzi e si fece concedere dal senato due titoli importantissimi,  la potestà tribunicia e l'imperio proconsolare maggiore e infinito. La svolta sarà epocale, poiché questi due titoli saranno la base del potere per tutti gli imperatori a venire: la tribunicia potestas proveniva direttamente dai tribuni della plebe e rendeva il principe sacro e inviolabile, con il diritto di emanare leggi ma, poiché tali leggi erano circoscritte al solo territorio di Roma, serviva l'imperio proconsolare per renderle effettive in tutte le parti dell'impero. Tali prerogative potevano essere trasmesse solo da padre in figlio, con tanto di ratifica senatoriale, dunque non era un privilegio dinastico: Augusto riconobbe per tempo i suoi successori, da Agrippa ai nipoti, ma la sorte in questo caso gli fu avversa e lo costrinse a scegliere il poco amato Tiberio, figlio di primo letto della moglie Livia. 
Forte di queste prerogative, Augusto passò a riorganizzare la struttura dell'ormai deceduta Roma repubblicana: divise le province in senatorie e imperiali, confermò l'Egitto come possedimento strettamente personale, riportò ordine nella scena politica romana onorando il senato e aprendo le porte della carriera pubblica anche ai cavalieri, ristrutturò l'intera città con importanti opere architettoniche e introdusse il culto religioso legato alla famiglia imperiale. A tutto ciò si aggiunse, nell'anno 2, anche il titolo di padre della patria. 


Per quel che riguarda la guerra, Augusto non ebbe mai grandi doti militari. Le sue vittorie furono quasi sempre frutto del genio di Agrippa che, tuttavia, lo servì sempre fedelmente e con amicizia. Agrippa vinse su Sesto Pompeo, riottenne le insegne sottratte a Crasso nel 53 dai Parti e, dopo la sua morte, i figli di Livia Tiberio e Druso ottennero numerose vittorie lungo tutto l'arco alpino. In tutto questo susseguirsi di trionfi, la sconfitta di Teutoburgo del 9 d.C. segnò un confine indelebile: il vecchio Augusto patì moltissimo la perdita di ben tre legioni e a ciò si aggiunsero le incessanti morti dei nipoti designati come eredi (nonché l'allontanamento forzato dell'amatissima figlia Giulia in esilio a Pandateria, oggi Ventotene).  Nel 13 d.C. depositò il suo testamento nella casa delle Vestali accompagnato da un piccolo documento, noto a noi come le Res Gestae Divi Augusti.  
Augusto si spense a Nola, in Campania, nel 14 d.C. Con lui c'erano la moglie Livia e Tiberio, l'erede designato. Prima di spegnersi, domandò se avesse recitato bene in quella commedia che era la vita. 

Fonti: 
Svetonio, "Vite dei Cesari"
Augusto Fraschetti, "Roma e il Principe", Bari, Laterza, 1990
Augusto Fraschetti, "Storia di Roma", Catania, edizioni del Prisma, 2003
Michael Grant, "Gli imperatori Romani", Roma Newton Compton editori, 1984

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