Non vogliamo compassione, vogliamo essere capiti!
Qualche sera fa, ho assistito per caso a una nota
trasmissione televisiva in onda sulla TV pubblica, condotta da un famoso presentatore
aiutato da una comica pungente e irriverente. Ospite della serata era il
direttore del quotidiano “Il Corriere della Sera”, Ferruccio de Bortoli.
Il discorso tra lui e il conduttore si è subito snodato su un
tema “caldo” degli ultimi tempi, ovvero la riforma del lavoro e del fantomatico
articolo 18. Tralasciando le simpatie o le antipatie che ognuno di noi può
avere verso questi personaggi dell’odierno panorama culturale e non, resta che
il signor de Bortoli ha subito individuato il nocciolo della questione. Fra tante
frasi fatte, il giornalista non ha mancato di sottolineare come gli sforzi dell’attuale
classe politica debbano dirigersi verso un mondo del lavoro che offra sbocchi
ai giovani, a quella fascia under 35 più colpita dal fenomeno del precariato e
della disoccupazione (e non solo quella purtroppo, n.d.a.), quella generazione
che ha di fronte a sé un futuro grigio e privo di speranze. De Bortoli ammette
che ciò che stiamo vivendo oggi non è più tanto una lotta di classe, quanto una
lotta generazionale. E come darvi torto, signor de Bortoli? Il periodo che
stiamo vivendo da un decennio a questa parte è stato scandito da un contrasto
generazionale ormai insanabile, fatto, da un lato, da genitori poco inclini a
comprendere i problemi di figli alle prese con contratti di lavoro a termine o
a progetto, altrimenti detti “atipici”, magari con due lauree alle spalle e,
dall’altro, da figli quasi gelosi di ciò che i genitori hanno ottenuto in
passato. Parlo del posto fisso, dei privilegi, della possibilità di fare
carriera, di aprirsi un mutuo, di fare dei figli.
Parliamoci chiaro. Chi vi scrive è una 25enne, una giovane
sciocca che ancora crede che qualcosa, seppur piccola, possa far smuovere
questo sistema. Una giovane che ancora sogna. Non di trovare un’occupazione nel
settore degli studi, quello sarebbe troppo, ma di trovare quel piccolo impiego
che permetta una vita dignitosa, indipendente, un piccolo appartamento e qualche sfizio ogni
tanto. Il problema di fondo, a mio modestissimo parere, è che non possiamo più
paragonare il mondo del lavoro di quindici - venti anni fa a quello attuale. Ma
un giovane, questo, lo sa benissimo. Oggigiorno, chi non è iscritto a un’agenzia
interinale? Chi non trascorre giornate intere sui siti di lavoro a inviare
curriculum in attesa di una risposta? Pochi, pochissimi fortunati. Per esperienza
personale, posso assicurare che i genitori di oggi faticano davvero a capire le
necessità di un figlio che, biologicamente parlando, è ormai adulto ma che per
motivi lavorativi e economici, deve restare sotto il tetto paterno, spesso
stretto. Ho vissuto per due anni fuori casa, tornare indietro non è stato per
niente facile. E non lo è tuttora. Vane sono spesso le parole che esprimono
questo senso di oppressione e di impotenza (perché davvero, c’è ben poco da
fare se non aspettare una chiamata e sperare), perché spesso s’infrangono
contro un muro che non vuole sentire e capire, un muro forte di trent’anni di
contributi versati regolarmente, un muro che non ha mai conosciuto lo
spauracchio della vita che scorre, degli anni che passano, del tempo passato
inattivi, dei risparmi che finiscono e che non si riescono a integrare, dei
sogni infranti. L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Girovagando per il web, ho trovato questo articolo http://www.michelmartone.org/il-labirinto-della-precarieta-52.html, che ovviamente mi sono fiondata a
leggere. È la storia, vera o presunta che sia, di un giovane precario, oggi
30enne, che dopo anni di disoccupazione e precariato ha scelto la via dell’estero.
Il che, direte voi, non è una novità. Neanche la sua frustrazione, le sue
ansie, le sue paure, il suo senso di impotenza verso una famiglia non
comprensiva lo sono, ma qualcuno fa ancora finta di non sentire. Qui non si
tratta di essere di destra o di sinistra, si tratta di un problema reale che
attanaglia intere generazioni, costrette all’impotenza, alla frustrazione, a
rendersi merce pur di lavorare quel mese, quanto basta per mettere da parte
qualche soldino in attesa del “grande evento”. Cosa si intende per “grande
evento”? Non un contratto fisso, ma un contratto anche solo di un anno, che non
ci faccia arrivare con l’ansia alla fine del mese. Si denuncia sempre più la
rinuncia a cercarsi una casa (d’altronde, guadagnando 600€ in un call center,
come si fa a pagarne 300 d’affitto se siamo fortunati più tutte le spese?), i
giovani lavoratori ritenuti quasi carta straccia. Fuori uno, avanti un altro. Tanto
le imprese prendono le sovvenzioni con le nuove assunzioni. E allora, dov’è l’inghippo?
Cosa si sta facendo realmente per cambiare le cose?
Gli articoli dei giornali battono sempre di più su questo
tema, è impossibile credere che sia ancora tutto fermo a venti anni fa. Genitori,
chi parla è una giovane precaria e da tempo disoccupata, perché o troppo qualificata
o senza esperienza. Pure per fare la commessa. Posso assicurare che ciò che è
scritto nell’articolo sopracitato è tutto vero. Ho sperimentato sulla mia
stessa pelle quelle disavventure. Sono lontani i tempi del posto sicuro,
ottenuto certo dopo un periodo di sacrifici, del matrimonio e dei figli
immediati. Fatevene una ragione. E mettetevi una mano sul cuore. Ciò che i
vostri figli vogliono, più che un aiuto economico, è una comprensione a livello
emotivo e psicologico.
Articolo figo. Scritto benissimo ed esaustivo °_°
RispondiEliminaSono con te.
Momo
Giusto! Dovrei farlo leggere a mio papà!! -.-'
RispondiEliminaGrazie! Il problema è questo: la comprensione. Spesso e volentieri la "vecchia" generazione (credo sia errato definirla così, ma è l'unico termine che su due piedi mi sovviene) fatica a comprendere che il mondo del lavoro da loro conosciuto è finito. La difficoltà, forse, sta anche nell'accettare che i loro sacrifici per costruire un futuro migliore ai figli sono risultati un poco vani. Non è per fare moralismi, ma siamo proprio su due orizzonti ormai troppo distanti. E' necessaria una coesione, perché in questo momento solo la comprensione (non la compassione!) dei nostri genitori o di chi abbiamo accanto può aiutare a superare questo momento per noi così difficile :)
EliminaUn abbraccio,
Danielle